Ieri sera ho dormito in un affittacamere a Petacciato. Il proprietario del B&B aveva ospiti, e si parlava di pastori. Lui è un geometra e ricorda ancora i tratti di campagna che il nonno metteva a disposizione dei transumanti come aree di sosta. I pastori pagavano con formaggio e denari, intanto le pecore fertilizzavano i campi con i loro escrementi. Una joint-venture tra agricoltura e pastorizia. Altro discorso per i riposi invernali del tavoliere delle puglie; al tempo lo stanziamento invernale di milioni di capi impediva qualsiasi coltura in quello che oggi è il granaio d’Italia. La mia transumanza oggi mi condurrà a Portocannone, gambe permettendo.
Esco di buon mattino. Seguo una mappa artigianale, regalo del geometra-affittacamere. Pochi schizzi, tracciati da un professionista, inchiodano su un A 4 il pezzo di tratturo che collega Petacciato a San Giacomo degli Schiavoni. La confronto con una carta turistico-stradale del Molise, in scala 1:175000 trovata nel salone-sala colazioni del B&B. In giallo le autostrade, rosse le statali, arancioni le provinciali. Due file tratteggiate di bianco, fantasmatiche, fanno riemergere i tratturi dalla terra sovrapponendoli alle moderne vie di comunicazione. Quest’ultime avanzano nervose dimenandosi in svolte e tornanti, arrancano elicoidalmente spaventate da una collina o da un torrente. Solo l’autostrada ricorda l’incedere prospettico e solenne dei tratturi. La mitica statale 17 scende dritta da Pettoranello del Molise sino a Sepino, appiattendosi sul tratturo Pescasseroli- Candela che è sotto di lei. La stessa però impazzisce di curve tra Isernia e Rionero Sannitico mentre l’altro abbozza appena una rotondità all’altezza di Acquaviva disegnando un semicerchio di due chilometri di diametro. L’assessorato al turismo della Regione Molise firma questa carta geografica dimostrando di credere nel richiamo turistico delle vie dei pastori.
Attraverso il paese nel suo corso principale, lambisco la piccola zona industriale e mi ritrovo in apertissima campagna. Non c’è traccia della grande rotatoria con annesso benzinaio disegnata dalla matita del geometra. Il percorso da lui indicato ricalca esattamente quello della sp112 e la Regione Molise conferma. Non intendo però cominciare la giornata con sei chilometri di tubi di scarico e poi ormai sono su una via più interna, di campagnola dolcezza. Ritroverò il tratturo nell’incrocio con la sp113.
Il paese si allontana alle mie spalle. La strada è in leggera discesa, invitante. Colline intere di terra rotta e rivoltata. L’aratro ha pettinato questi crinali con segni evidenti come linee di Nazca. Un manipolo di ulivi in lunga fila si compatta resistendo all’assedio delle semine, cominciano appezzamenti di girasoli. Il tempo della loro danza solare è finito, ora rivolgono la spoglia corolla verso il basso, sfiniti da tutto il caldo dell’estate. In lontananza un cane abbaia. Dove le colline si incontrano e la terra cozza contro la terra, piccoli corsi d’acqua raccolti tra una vegetazione d’arbusti. Un tronco d’argento, secco e solo in un campo, arringa una folla di girasoli chini come oranti e fermi in fila a due metri da lui, sembra un albero di Penone. Ogni tanto un vigneto si dona al sole, tra poco poi sarà la vendemmia, altro rito popolare settembrino. Costeggio una fattoria con più animali di un centro per la zootecnia; conigli, galline, tacchini e sotto una tettoia di lamiera uno struzzo. Tutti rumoreggiano in un caleidoscopio di vecchi attrezzi arrugginiti, tubi e guttaperche. Una pecora mi rivolge il suo saluto belante. La salita sul crinale di fronte è un’ascesa metafisica, mi inerpico tra colli d’argilla incisi come cretti di Burri. Sull’orizzonte che separa terra e cielo un dendritico tronco completamente annerito. Avanzo ancora per un paio di chilometri di buon passo. D’un tratto grossi teli verdi coperti da neri pneumatici imbacuccano un intero poggio. Si annuncia così la discarica del Comune di Guglionesi…..e San Giacomo? Sono più a sud del previsto. Incrocio una statale e la seguo verso l’interno. La visione di un nutrito gregge non mi rasserena dal dubbio. Un uomo coglie pomodori. “Sei troppo avanti, sei quasi a Guglionesi” e si accende una sigaretta. Le sue indicazioni mi fanno tornare indietro di duecento metri e imboccare sulla destra un viottolo polveroso. Stando alle sue parole dovrebbe portarmi tra i due paesi esattamente sopra il tratturo che sfiora San Giacomo senza attraversarlo. Riemergo, dopo quattro chilometri di dune e un panzerotto mangiato in fretta, in prossimità di un grosso casale verde smeraldo. Dall’interno suoni di batteria con qualcuno che cerca il ritmo, come faccio io con le mie racchette. Non ne potrei più fare a meno. Attivano tutto il corpo al camminare, il loro ticchettio sul terreno è un mantra sciamanico, si accorda con la respirazione e il battito cardiaco, incornicia il pensiero e libera lo sguardo. Ci siamo, vedo i due paesi sui loro cucuzzoli perfettamente equidistanti. Sulla mia sinistra un’insegna marrone segnala l’inizio del tratturo. E’ un piccolo tratto di tre chilometri e mezzo. Non c’è niente ormai del grande fiume d’erba che fu. Qui il tratturo si fa ruscello, la sua larghezza non supera i cinque metri. Il fondo è di ghiaia, ciottoli e pietrisco, anche la mia andatura si fa più snella, torrentizia.
Trotterello in discesa felice di aver ritrovato la via. Un aereo crinale mi permette una visuale finalmente ampia a comprendere meglio geografia e possibilità residue. Siamo a metà pomeriggio, devo decidere dove “accamparmi” per la notte.
Grossi camion ruggiscono dentro una collina sbancata. La polvere che sollevano imbianca le colture intorno come nevischio. Stanno allestendo una discarica per lo smaltimento dei rifiuti della produzione di zucchero da barbabietole. Un cartello turistico della rete tratturale è divelto e bruciato, rimane però leggibile la targhetta celeste con le dodici stelle della comunità europea. Non sarebbero contenti a Bruxelles se sapessero come gli italiani vegliano sui fondi europei di sviluppo regionale. Cumuli di rifiuti si affastellano ai lati del sentiero. Chiedo lumi ad alcuni operai che si consultano tra loro. Il più esperto dei luoghi, con sufficienza, mi dice che c’è molto ancora per Porto Cannone, “vedi, quello è Guglionesi” e indica il paese sul crinale di fronte che invece è San Martino in Pensilis. Portocannone poi non è lontanissimo ma è raggiungibile solo immolandosi per quattro chilometri sulla statale 647 “Fondo Valle del Biferno” e risalire poi sul suo cucuzzolo.
Scelgo il martirio, quattro chilometri su asfalto rovente accarezzato da automobili lanciate a folle corsa verso il litorale. Tengo il ritmo alto per affrettare il supplizio, come Pantani sul Mortirolo. La corsia d’emergenza fortunatamente è ampia. Mi concentro sulle spinte, dalla caviglia sino al polso tutto il corpo lavora a cercare l’efficienza del gesto. Il sudore si raggruma sulla fronte incanalandosi copioso lungo la dorsale del naso e goccia dopo goccia stillicidia sulla maglietta ormai fradicia. Sfioro i sei chilometri orari. Non mi distrae nemmeno l’immondizia accumulata sul ciglio della strada. Da quando sono partito ogni carrozzabile si snoda tra due ali di pattume ammassati nelle cunette, sui rovi, addosso ai guard-rail. Un corteo ininterrotto di vecchi giornali, buste di plastica, bottiglie e stracci. Discariche che si sviluppano in lunghezza e che propongono un’ampia serie di vantaggi al cittadino. Non si vedono sfrecciando ai cento all’ora, sono aperte a tutti e sono manna per randagi e per insetti onnivori. Il massacro termina con una secca svolta verso destra. Scavalco la Strada Statale 87 Sannitica e trovo un nugolo di frecce blu : Termoli cinque chilometri, Portocannone due, Foggia ottantacinque. Miasmi fetidi si alzano da un fabbricato poco distante. Una selva di tubi pesca acqua da un laghetto circondato da pini silvestri. Le serpentine si fondono in tre colonne nere, alte sopra gli alberi, che scaricano il loro contenuto in un inghiottitoio color ruggine. Il puzzo è insopportabile. Un esalazione composita, mortifera, che mischia crostacei in putrefazione, acidi gastrici e pannocchie carbonizzate, è questa l’esalazione tipica di uno zuccherificio da barbabietole.
Comincia la salita per Portocannone. La strada è ampia ma non passa nessuno. Il dislivello consente una bella vista sulla valle del Biferno. Alle spalle del fiume i monti del Matese, qui sotto invece complessi industriali in serie accompagnano il corso d’acqua in Adriatico. Prendo il paese alle spalle. La prima impressione non è buona. Palazzine sciatte e maltenute, nessuno in giro. Trovo un B&B nella parte nuova del paese. Le scale d’ingresso assemblate con materiali di risulta, la facciata dello stabile sbrecciata e cadente.
Nonostante i ventisei chilometri percorsi ho voglia di fare quattro passi in centro. Grossi attrezzi agricoli ingombrano le strade. Mi infilo nella parte vecchia attraversando un arco alle spalle del bel palazzo “Cini”, oggi “Tanasso” e passeggio curioso tra i vicoli. L’insegna della biblioteca è in doppia denominazione. Entro chiedendo spiegazioni e ne esco con tre libri sotto il braccio.
Portocannone è un paese arbëreshë. Nel 1461 cioè quattordici anni dopo l’istituzione della regia dogana delle pecore, Ferdinando d’Aragona, sempre lui, dona a Giorgio Castriota, detto lo Scanderbeg, alcuni feudi in Capitanata. Il condottiero albanese aveva aiutato gli Spagnoli contro le rinnovate fazioni angioine guadagnando per sé e per i suoi connazionali, nel frattempo minacciati in patria dai Turchi, una nuova terra promessa. In realtà gli Albanesi occuparono molti paesi e luoghi distrutti dal feroce terremoto dell’undici dicembre del 1456, rilanciando così l’economia locale. Con la fatica e il lavoro si trasformano da mercenari a contadini, affrancandosi da una condizione di bifolchi affamati e pretendendo libertà e diritti, non ultimi quelli religiosi. Il clero latino, in un primo momento accondiscendente e partecipe della sofferenza della diaspora albanese, comincia ad avversarli. Nel 1549 vengono scacciati da Larino mentre Ururi, oggi considerata la capitale di questa enclave d’oriente, è data alle fiamme. Nel 1561 il vescovo Balduino, di ritorno dal concilio di Trento, dichiara guerra al rito greco-ortodosso che verrà definitivamente abbandonato dagli Albanesi all’inizio del diciottesimo secolo.
I discendenti di quei profughi parlano oggi un albanese arcaico, dialettale, intorno al quale costruiscono un senso di appartenenza atavico e tribale. Usano per salutarsi un’espressione tradizionale di rara potenza “gjaku shprjshur”, sangue nostro disperso.
Capisco adesso perché al bar dello sport, in piazza, faticavo a capire le parole degli avventori. Mi affretto al ristorante. Stasera l’Italia gioca per le qualificazioni ai mondiali sudafricani. Nessuno in strada e dalle finestre aperte si levano alte le parole che uniscono tutti… “ che schiava di Roma iddio la creò..”.
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