LA CADUTA NELL’OBLIO DI FRATTURA VECCHIA
Era il 13 gennaio 1915 quando il terremoto della Marsica, in Abruzzo, causò la distruzione di Frattura, una frazione del comune di Scanno (da cui dista 6 km), in provincia di L’Aquila. Quel giorno, alle 8 circa del mattino, la terra tremò e nel sorgere dell’alba persero la vita oltre 160 persone (quasi l’intera popolazione del villaggio), principalmente donne e bambini, dato che gli uomini si erano trasferiti negli Stati Uniti d’America con la speranza di trovare miglior sorte altrove per poi tornare in patria dalle proprie famiglie.
Il 7 settembre 2013, 98 anni dopo la catastrofe, mi sono recato in questo luogo per visitare le rovine del vecchio centro abitato. Quel sabato, ricordo che convinsi mia madre e uno dei miei migliori amici (con il quale ho condiviso molti viaggi nei caldi mesi estivi, alla ricerca di borghi abbandonati) ad accompagnarmi in un’altra avventura; partimmo in tarda mattinata, provvisti di una colazione a sacco ma soprattutto muniti di macchine fotografiche. Scanno, da casa mia, dista 200 km, poco più di un paio d’ore e mezza; non era nuova per me quella località, quel posto emanava nella mia anima un certo fascino non soltanto per le bellezze paesaggistiche che era in grado di offrire, ma anche perché avevo già tentato di visitare Frattura Vecchia per ben due volte, senza riuscirci, recandomi di proposito in quel luogo per documentarmi di persona. La prima volta, ad agosto, ero convinto di averlo visitato perché mi feci ingannare da alcuni fabbricati fatiscenti, disposti proprio vicino al cartello che indica l’antico centro abitato; la seconda volta, a inizio settembre, arrivai (ahimé) troppo tardi, tanto che era quasi sera.
Seguimmo l’autostrada A1 fino all’uscita di Cassino, superammo Sora percorrendo una strada statale (SS 690), prima di riprendere l’autostrada ad Avezzano (la A25), superare Pescina (un altro posto molto interessante che vidi per caso un mese prima) e prendere l’uscita Cocullo.
Non è facile dimenticare il percorso che da lì porta a Scanno; costeggiammo per tutto il tragitto, caratterizzato da una strada che somigliava a una strettoia, piena di curve e da gallerie scavate nella roccia, il lago. Prima di raggiungere Scanno, però, ci fermammo a Villalago, dove notammo un ponte e degli alberi di pino in lontananza; attraversando il ponte San Domenico, si raggiunge un’area picnic, dove sostammo per pranzare e trovare un po’ di refrigerio. Dai tavoli di legno dove eravamo seduti, si presentò di fronte a noi uno spettacolo magnifico: la chiesa sul ponte era riflessa
nell’acqua verde del lago, c’erano anche delle oche bianche (le quali, a riva, attendevano pazienti che qualcuno gettasse loro qualche briciola di pane da mangiare) e poi delle cascate meravigliose, nella quiete della natura, con il suono sereno dell’acqua che ci aveva rilassati per tutto il tempo, concedendoci una sensazione invidiabile di sollievo e beatitudine. Sono quelli i momenti in cui vorresti illuderti che la vita duri per sempre.
A Frattura, in estate, viene praticato il gioco delle bocce; infatti, prima di incamminarci verso il paese ormai disabitato, ne approfittammo per fermarci in un bar nei paraggi e mentre terminavamo di gustare il nostro gelato, notammo alcuni anziani che erano intenti a lanciare le sfere colorate. Uno di loro, in particolare, non passò inosservato ai nostri occhi, soprattutto a quelli del mio amico, dato che questo signore indossava un berretto proprio con la bandiera della sua nazione. Quando glielo facemmo notare, lui immediatamente ci raggiunse. Intraprese un dialogo in spagnolo con il mio amico, dal quale io potevo comprendere solo qualche stralcio del discorso; questo tizio, abruzzese di nascita, ci raccontò che si era trasferito in Sudamerica a vent’anni appena, seguendo le orme dei suoi parenti, con l’aspettativa di una migliore qualità di vita all’estero. Ci confessò che una delle case pericolanti, all’inizio del paese, era la sua. Non aveva avuto più modo di tornarci, ma lì erano rimasti intatti i ricordi legati alla sua famiglia.
Non nego che per un istante pensai che neanche quella volta sarei riuscito a visitare la città fantasma, dato che eravamo entrati nel vivo della conversazione (in italiano!) e mi sembrava alquanto scortese ed inopportuno lasciarla incompiuta, ma inconsapevolmente proprio con il suo accenno a Frattura Vecchia, quello sconosciuto così espansivo mi servì l’occasione per dichiarargli il reale motivo della mia presenza lì, in quel posto dimenticato. Fu così che, comprendendo il fine del mio viaggio, mi lasciò andare ed io lo confortai dicendogli che sarei tornato poco dopo.
Da Frattura Nuova seguendo l’indicazione per Frattura Vecchia, si attraversa una strada con dei ruderi ma poi, dopo pochi metri, s’intravede da lontano un paesaggio con dei tornanti, un cimitero, tanto verde e il paese arroccato tra le valli, come se volesse nascondersi e mettersi al riparo da possibili nuovi disastri naturali. La strada è in discrete condizioni fino in prossimità del camposanto, infatti percorrendo il sentiero non è asfaltata anche se, attraversandolo, vidi ritornare dalla cima un’auto e un uomo in sella a un motorino malconcio (che tra l’altro ci salutò), ma è comunque consigliabile parcheggiare l’autovettura e proseguire a piedi.
All’inizio del sentiero, sono visibili un cartello di divieto arrugginito, un campo da tennis e avvicinandosi al paese comincia il percorso in salita, in una serie di curve, che può avere la durata di mezz’ora o al massimo quaranta/quarantacinque minuti di cammino. Sulle pendici della montagna, ad un’altitudine di 1.260 metri sul livello del mare, si nota il lago che, da un’altra visuale, assume un bizzarro disegno, a forma di cuore.
Giunti al paese abbandonato, la prima immagine che si coglie è quella di una chiesa di piccole dimensioni (la Chiesa di San Nicola) dove, sporgendosi da uno spiraglio della porta d’ingresso, è visibile l’interno.
Si udiva il belare delle pecore, mentre fummo accolti dall’indifferenza di un branco di cani, protettori del gregge, e da un gruppo di persone che facevano trekking. Oltre a un abbeveratoio in pietra, meritano una menzione particolare anche gli edifici crollati, altre case ristrutturate e una fontana del 1834, che si trova nel piazzale dello spopolato centro urbano (infatti nel borgo sono funzionanti sia l’acqua che la luce), con a fianco alcune scalinate.
A Frattura Vecchia, per quanto concerne le curiosità, è stato girato il film “Uomini e lupi” nel 1956, con Yves Montand e Silvana Mangano.
Quando all’improvviso la sera si impadronì del cielo, ritornammo al locale, dove scorgemmo quell’uomo dall’aspetto corpulento e col viso rubicondo che stava per andarsene; facemmo giusto in tempo per salutarlo di nuovo e di scambiare qualche chiacchiera ancora un po’, prima che tornasse a Sulmona, cittadina dove anche noi, per pura coincidenza, eravamo diretti prima di fare rientro a casa (preceduta però dal passaggio ad Anversa degli Abruzzi, un’altra perla di una regione fantastica).
Frattura Vecchia e Scanno, da allora, mi sono rimasti nel cuore, come quei posti dove non hai radici ma che sin dall’inizio ti hanno cambiato il modo di vedere e sai che in qualche modo ti appartengono, restando scolpiti nella tua mente. Di quel giorno, nel declino dell’estate, ricordo il silenzio del tempo ormai perduto, la solitudine delle case rimaste in piedi, le miserie dei residenti che nell’alba trovarono il loro vespro e una brezza triste fra la polvere e le rovine.
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